Kallocaina, di Karin Boye

Più ci si allontana dalla prima metà del ‘900, più la narrativa distopico-fantastica di quel periodo sembra tornare d’attualità e l’avvento patinato delle tecnocrazie capitaliste ha reso le contraddizioni del rapporto tra Sistema e stato di libertà sviluppato nei vari Noi (E. Zamjatin, 1924), Il Mondo Nuovo (A. Huxley, 1932), Millenovecentottantaquattro (G. Orwell, 1948), sempre più evidenti.

Nel suo Kallocaina – uscito per la prima volta nel lontano 1993 per i tipi di Iperborea con traduzione di Barbara Alinei e oggi riproposto dal medesimo editore con la stessa, ottima, traduzione – Karin Boye racconta, attraverso il dominio e il perfezionamento della tecnica, l’ascesa verso un totalitarismo perfetto di un claustrofobico Stato Mondiale; il protagonista Leo Kall, antieroe che con lucidità e coscienza aderisce all’apparato repressivo del Sistema, porta a perfezionamento la tecnologia in grado di consentire il controllo totale sugli individui-sudditi: l’invenzione della Kallocaina, il siero della verità, vera e propria panacea per un Governo Mondiale paranoico e nazista, dove ogni violazione della persona è infatti consentita in nome delle millantata sicurezza e stabilità collettiva. 

Ma è qui che il romanzo di Karin Boye delinea la propria specificità con un tratteggio sociale e politico che lascia il campo alla definizione interiore di personaggi carichi di un’umanità mai del tutto sopita, in perenne lotta tra luci ed ombre, fervori e ripensamenti. E se l’eroe, l’ultimo uomo sulla terra, Winston Smith, svegliatosi al proprio integerrimo bisogno di libertà, andrà incontro alla disfatta senza esitazioni in un’epifania teoretica che non conosce ripensamenti o dubbi, Leo Kall, proprio nel momento di massima auge comprenderà i limiti della propria scoperta scientifica perché la sempre sfuggente verità resiste a qualsiasi induzione artificiale come la matrice profonda delle relazioni interpersonali.

Karin Boye si interessa alla menzogna individuale e non a quella orwelliana dei sistemi con una domanda di fondo che segna il fulcro della sua riflessione: qual è la natura di questo mentire e della libertà? I personaggi di Kallocaina sono tutti profondamente infelici alla prova della verità, ma questo sentimento non è legato “banalmente” alla mancanza di libertà, ma a un Sistema di riferimento che non riconosce i rapporti umani e, nel cortocircuito di un’esistenza nella quale gli esseri ormai disumani non riconoscono la centralità di questa umanità, non resta che mentire ed essere quindi relegati all’infelicità. La perfezione del rapporto madre-figlio all’interno del grembo materno rappresenta in ultimo il paradigma di quei rapporti che, soli, possono ridare un senso al nostro esistere e il romanzo di Karin Boye ci lascia in eredità un profondo senso di speranza; Leo Kall vorrà con tutto se stesso redimersi dalla sua condizione così come la maternità non rappresenta un avvenimento unico: ogni madre e ogni uomo infelice condivide la stessa esperienza e sono lì a ricordarci che nessuno è solo, perché gli altri, tutti gli altri, sanno.

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